In questo periodo di quarantena causata dalla situazione sanitaria relativa alla pandemia di Covid-19, sono numerosi gli ambiti in cui il sostegno psicologico viene messo in primo piano, soprattutto per quanto riguarda persone con determinate patologie e personale sanitario ed assistenziale che si trova in prima linea per fronteggiare l’emergenza.
Mi sono però chiesta se ciò che stiamo facendo sia sufficiente, se non ci stiamo dimenticando qualcuno…
Questa riflessione emerge da un momento di vita vissuta occorso la scorsa domenica, quando, tra un film e una serie tv, ho ricevuto una telefonata. A chiamarmi era una delle signore che partecipano ad un gruppo per caregiver del quale sono moderatrice. La signora Maria ha iniziato a partecipare dopo la morte del marito, quando il suo compito di cura si era esaurito: non riusciva a trovare una modalità diversa per vivere, per ridisegnare la sua quotidianità.
Maria vive da sola, ma ha figli e nipoti che le sono molto vicini e con i quali condivide numerosi momenti piacevoli. In questo periodo però non li sta vedendo: lavorano e sono a contatto con numerose persone e per questo motivo vogliono preservare Maria da un possibile contagio. Si sentono spesso telefonicamente, passano a portarle la spesa e la salutano dal marciapiede, cercando di essere comunque presenti per lei. Ma le giornate sono interminabili, ed evidentemente domenica lo era più di tutte le altre, tanto da far pensare a Maria che forse aveva bisogno di qualcuno, qualcuno che la conoscesse e con cui era emerso anche il suo lato meno forte e combattivo.
“Ho pensato di chiamare te, perché eri l’unica che poteva capire”
Queste sono state le prime parole di Maria tra le lacrime, questo è stato ciò che mi ha detto appena le ho risposto al telefono.
Non credo di aver fatto chissà quale intervento, non credo di averle detto chissà cosa, anzi, non pensavo di essere stata utile, ma evidentemente non è stato così: le ho dato il modo di esternare ciò che con alla famiglia non vuole far vedere.
“Loro sanno che io sono forte, mi vedono così e va bene così.. non voglio farli preoccupare…”
Quante e quante volte Maria mi ha detto questa frase, quante volte ho provato a riflettere con lei sul darsi la possibilità di dimostrare le sue fatiche e le sue debolezze.
Credevo di non essere riuscita a scalfire quella corazza che in più di 80 anni si è costruita per far fronte alle difficoltà della vita.. eppure.. eppure mi sbagliavo alla grande.
Con me si è permessa di essere veramente Maria, con tutto ciò che questo comporta. L’aver accolto i suoi bisogni, il suo pianto, l’aver riconosciuto la sua difficoltà le ha permesso di salutarmi dicendomi grazie, dicendomi che sapeva che sentendomi sarebbe stata meglio.
Dopo aver riattaccato il telefono ho pensato molto alle sue parole, al senso del lavoro di psicologo, a quanto possiamo essere importanti in questo momento. E altrettanto ho pensato a quanto sia difficile, praticamente impossibile, riuscire a raggiungere tutte le persone che hanno necessità, che possono trovare giovamento da un nostro intervento: tutte le persone anziane che vivono sole ad esempio, categoria già fragile di per sé, che sta subendo in modo significativo le limitazioni di questi giorni.
E allora cosa fare? Come potersi sentire meno impotente?
Io credo che sia indispensabile, nelle nostre città e nei nostri paesi, riscoprire il “buon vicinato”, quello che ci fa fermare un attimo a parlare da un balcone all’altro, da un cortile all’altro, con chi abita vicino a noi, con chi magari ha contatti solo telefonici con famiglia e amici, con chi non ha le capacità o la possibilità di fare una videochiamata.
Non sempre serve un sostegno psicologico strutturato. A volte basta davvero poco per essere la rete sociale che fa pensare alla persona “sapevo che chiamando te sarei stata meglio…”
Dott.ssa Elena Ferlini
Psicologa, Psicoterapeuta e Consigliera del CDA di Omnia Impresa Sociale